Salviamo il monastero delle clarisse dalla santità alla burocrazia

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Cosa penserebbero i romani se sotto falsa cupola di Andrea Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyala distribuissero gli abbonamenti dell’Atac o i buoni pasto degli asili nido?
Sezze nel suo centro storico è come una filigrana è bella quanto delicatissima, delicata nella struttura fisica ma ancora di più nelle storie. Il monastero delle clarisse è l’anima vivente della memoria di una fede antica in Dio tanto forte che ci sono nate le pastarelle, i dolci che se il Pandoro è il dolce creato da pasticceri di Verona per un compleanno, sia pure di Dio, le pastarelle le ha create direttamente la fede per mano di Dio. Ecco di questo sacro posto, di una forza struggente, di una identità che ti entra dentro fino al dolore dei ricordi, ci vogliono fare un “centro per l’impiego”.  Che i Bobbo e la Femminuccia insieme trovino modo di perdonare questo abominevole pensare.
Raccolgo l’appello di Giovanna Coluzzi di cui condivido ogni indignazione. Le suore non ci sono più, ma ci sono state, la fede è andata via ma c’è stata, l’anima di mille storie oggi è un poco vuota ma c’è stata. Sezze è il monastero delle clarisse, è la chiesa dei gesuiti, il seminario e lo dico da laico. I posti si mano perché sono storie non di muri ma di vita. Io ci farei il tempio della “dolceria”, perché solo madonne potevano creare le paste di visciola e le paste di mandorla, non possiamo sostituirle con i bon bon.
Lidano Grassucci
Uno Scempio Annunciato: Il Monastero Sacrificato alla Burocrazia
di Giovanna Coluzzi 
Immaginate di entrare in un antico monastero, dove il tempo sembra essersi fermato. Le navate silenziose, i chiostri avvolti dalla luce dorata del pomeriggio, le mura che raccontano secoli di storia e spiritualità. Ora immaginate tutto questo cancellato, soffocato sotto il peso della burocrazia moderna. Le ampie sale trasformate in fredde stanze d’ufficio, con scrivanie impersonali allineate in file perfette, computer e telefoni che squillano senza sosta. Al posto di arazzi e affreschi, pareti tappezzate di avvisi aziendali, modulistica obbligatoria e orari di ricevimento. I soffitti a volta illuminati non più dalla luce naturale, ma da fredde lampade al neon che appiattiscono ogni atmosfera. Dove un tempo si camminava a passi lenti, ora si sentirà il ronzio costante delle stampanti, il brusio delle conversazioni frenetiche, il battere nervoso delle dita sulle tastiere. I corridoi, un tempo percorsi da monache immerse nella preghiera, saranno riempiti da impiegati di fretta, da carrelli carichi di scartoffie, da distributori automatici che sostituiscono il silenzio con il ronzio metallico delle bevande che cadono nel vuoto. E il chiostro? Quel cuore pulsante di spiritualità e storia? Potrebbe diventare un parcheggio per motorini, un’area fumatori o un deposito di materiali di cancelleria. Le antiche porte lignee sostituite da sterili porte antincendio, i pavimenti in pietra nascosti sotto pavimentazioni tecniche anti-scivolo, gli angoli più suggestivi riempiti da armadietti grigi e cassettiere anonime. Ogni cartello di emergenza, ogni cavo lasciato a vista, ogni pezzo d’arredo moderno inserito a forza sarà un colpo inferto alla memoria del luogo. E quando tutto sarà finito, quando la trasformazione sarà completa, del monastero resterà solo l’involucro. Vuoto. Profanato. Vogliamo permettere che un gioiello del nostro patrimonio venga sacrificato sull’altare della funzionalità? Vogliamo assistere in silenzio a questo scempio?
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